Nel corso dei vent’anni che hanno preceduto la pandemia da Covid (2000-2019) tutte le regioni italiane hanno rallentato nella loro crescita economica: in Italia nel 2000 il Pil pro-capite era del 22% più elevato rispetto alla media europea, vent’anni dopo risulta essere del 6% più basso.
La scarsa crescita interessa anche e soprattutto le regioni del Nord Est che erano considerate, non a torto, la locomotiva d’Italia dato il fondamentale contributo che davano nel trainare l’economia dell’intero nostro Paese.
Il Veneto, fino a non molti anni fa, reggeva tranquillamente il confronto con le aree più avanzate e industrializzate d’Europa. Oggi invece la regione governata da Luca Zaia non tiene più il passo, ad esempio, con quelle aree della Germania che, per vocazione manifatturiera e propensione all’esportazione, rappresentavano il benchmark attraverso il quale misurare le prestazioni economiche.
Il Veneto, tra il 2000 e il 2019, ha fatto registrare una variazione del Pil pro-capite (misura principe del benessere materiale) di solo 4,6 punti percentuali, perdendo ben 37 posizioni nel confronto con le altre regioni d’Italia e d’Europa. Per avere dei termini di paragone, nello stesso arco di tempo, la Lombardia ha perso 20 posizioni, l’Emilia Romagna 26, la Basilicata 30 e il Lazio 34. Se si guarda ad alcune regioni tedesche, che in passato rappresentavano il punto di riferimento con il quale confrontarsi, la situazione è ancora più impietosa. L’Oberbayern, la regione di Monaco, ha visto crescere il Pil pro-capite del 27,5%. Stuttgart, nel Baden-Württemberg, del 29,9%. Anche le regioni tedesche che in passato partivano da valori molto più bassi del Pil pro-capite ora si trovano a surclassare il Veneto. Chemnitz, in Sassonia, paragonabile in precedenza per Pil pro-capite alla Calabria e alla Sicilia, riesce a crescere del 48,1%.
Le ragioni di questo scivolamento verso il basso vanno ricercate nei costi di produzione troppo elevati, in visioni e progetti di corto respiro, nei mancati investimenti in istruzione e in formazione.
In particolare in Veneto vengono al pettine i nodi di una politica della regolazione dello sviluppo regionale di tipo non-interventista, che ha ridotto al minimo l’intervento pubblico lasciando di fatto che il sistema economico si autoregolasse. Gli anni di governo regionale del centrodestra hanno perpetuato uno stile amministrativo, tipico di quella che era la subcultura bianca del localismo antistatalista, che assegna all’ambito politico solamente il compito di mantenere lo status quo, con uno scarso uso della programmazione come strumento di regolazione, privilegiando politiche di tipo distributivo.
L’assenza di un coordinamento da parte dell’istituzione regionale ha enormemente contribuito ad alimentare le ragioni per le quali il Veneto, in 20 anni, ha perso 37 posizioni nella classifica del Pil pro-capite. Di questo passo, oltre che nano politico, la nostra regione rischia di rimpicciolirsi irrimediabilmente anche dal punto di vista economico. Per tornare ad essere protagonisti dello sviluppo, in Italia e non solo, serve cambiare rotta. E in fretta.